La Confagricoltura, supportata da Coldiretti, ha di recente protestato contro l’Unione europea, come del resto aveva già fatto nel 2016, perché la Tunisia ha chiesto alla Ue di prorogare l’accordo che prevedeva la possibilità di esportare 35mila tonnellate d’olio esente da Iva in Europa.
Produzioni – come dice la Coldiretti – «a bassa qualità svendute a prezzi insostenibili, ma commercializzate dalle multinazionali sotto la copertura di marchi nazionali ceduti all’estero per dare una parvenza di italianità da sfruttare sui mercati, a danno dei produttori e dei consumatori».
Accuse fondate?
Sulla base dei dati Ismea, nel 2017 le importazioni italiane (531mila tonnellate di olio, a fronte delle 421mila tonnellate esportate) sono servite a coprire il deficit di fabbisogno interno soltanto in minima parte, mentre la parte maggioritaria è stata miscelata dalle imprese italiane per poi vendere sui mercati internazionali.
Ma se la Tunisia esporta 33mila tonnellate di olio in Italia, le cui vendite rappresentano appena il 6% del totale (la Spagna ne esporta 394mila tonnellate, e la Grecia 77mila), da un punto di vista quantitativo può aver destabilizzare il mercato italiano?
Più utile esaminare le quotazioni dei diversi oli mediterranei per verificare se esiste una concorrenza in base al prezzo?
L’andamento dei prezzi medi internazionali relativi al mese di ottobre 2018, evidenziati dall’Ismea, oscilla dai 2,63 euro al kg dell’olio tunisino ai 2,82 di quello spagnolo, con una differenza minima pari allo 0,5%.
Perché, allora, questo attacco all’Ue per l’accordo con la Tunisia?
La Tunisia fa un po’ da capro espiatorio, perché il vero obiettivo di questo attacco è la politica delle grandi imprese italiane del settore – potenziali acquirenti dell’olio, che lo utilizzano per vendere all’estero oli miscelati – che rendono la vita difficile ai piccoli produttori. Infatti l’olio tunisino, ma ancor più quello di Spagna (che però è un Paese comunitario), costando meno di quello italiano, che all’ingrosso viene venduto a 4-5 euro al kg, costringe le piccole imprese a vendere il loro prodotto sotto costo.
Il problema reale è la mancanza di una filiera dell’olio extravergine italiano che in maniera efficace valorizzi la produzione nazionale, che per il 90% è concentrata nel sud del paese. Ai produttori del Mezzogiorno deve essere offerto un percorso alternativo che consenta loro di evitare che il proprio olio d’oliva extra vergine venga acquistato sottocosto da intermediari al servizio delle grandi aziende che lo imbottigliano, miscelandolo, per distribuirlo poi nel mercato nazionale e in quelli esteri.
Le previsioni più recenti annunciano un raccolto dimezzato, pari a 225mila tonnellate, a causa soprattutto del clima avverso. Il mercato nazionale sarà invaso, di necessità, da olio estero, soprattutto da quello spagnolo che ha invece toccato un nuovo record di produzione.
C’è chi suggerisce la creazione di un nuovo marchio certificato, che al fianco degli oli dop e igt di eccellenza – che rappresentano una quota piccola del totale – garantisca in maniera inequivocabile l’origine nazionale del prodotto, utilizzando tutti gli strumenti di comunicazione e di marketing necessari.
In tal modo si avrebbe una suddivisione chiara del mercato, soprattutto per il consumatore, che potrebbe optare per un prodotto genuinamente italiano a un prezzo più elevato oppure scegliere un prodotto miscela di oli extravergine di origine estera a prezzi più contenuti.