Nonostante i tempi tutt’altro che rosei, possiamo vantarci di essere la seconda potenza agricola d’Europa, dietro alla Francia (70 miliardi) e davanti alla Germania (51,2 miliardi); infatti lo scorso anno al G7 dell’agricoltura ci siamo presentati con 52,9 miliardi di fatturato.
Se consideriamo invece il valore aggiunto, cioè a quanto capitale e lavoro fanno aumentare il valore di beni primari iniziali (come la terra) nel corso del processo di produzione e distribuzione, l’Italia, in ambito agricolo, con i suoi 30 miliardi di euro è il primo Paese dell’UE.
Non solo. Siamo il Paese più “verde” d’Europa, come dimostrato dal notevole numero di certificazioni alimentari: 291 specialità Dop/Igp e 451 vini Doc/Docg.
E ancora: vogliamo parlare delle nostre 60 mila aziende biologiche e dei nostri 4.965 prodotti alimentari censiti? In questo quadro la Puglia rappresenta una fetta consistente del made in Italy.
I produttori dovrebbero essere soddisfatti. E invece lamentano di non riuscire a coprire costi; significa, evidentemente, che l’agricoltura italiana non esprime tutto il suo potenziale.
La crisi ha evidenziato una delle caratteristiche più tipiche e contraddittorie del nostro modello di sviluppo, in cui i territori sono sfruttati per produrre una ricchezza che, spesso, solo in piccola parte è reinvestita nei luoghi di produzione, per essere, invece trasferita altrove.
Come uscirne? Trovando modelli e politiche di sviluppo locale innovativi – dove le città siano protagoniste – che evitino la separazione della ricchezza monetaria dal lavoro e dai luoghi. Il legame tra cibo, identità, paesaggio, economie locali è vincente in un’ottica di rilancio dell’agroalimentare. In questo modo si possono costruire mercati diversi e distribuzioni differenziate.
E allora largo alle filiere corte multifunzionali, che riducono la loro dipendenza da meccanismi industriali e distributivi! Non pensiamo però solo alla vendita diretta in masseria, molto diffusa in Italia, che difficilmente potrà espandersi e produrre valore per il territorio. Bisogna puntare a creare sistemi in grado di automantenersi su base locale. E quindi promuovere processi di concertazione e condivisione tra agricoltori, consumatori e istituzioni locali.
Sintetizzando, un percorso di promozione di progetti sostenibili basati sul cibo dovrebbe:
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avere un’ottima conoscenza del contesto territoriale;
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censire tutte le politiche (comunitarie, statali, regionali, locali) che contribuiscono a promuovere le filiere corte in modo da metterle in rete;
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consolidare un gruppo di promotori del progetto locale costituito da singoli agricoltori, gruppi di cittadini, associazioni di categoria;
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costruire dei veri e propri patti di “filiera locale”.