Quale sarà il trend produttivo e commerciale, nei prossimi anni, della produzione europea nel settore delle olive e dell’olio?
Circa 1 mese fa, il Servizio Ricerca del Parlamento Europeo (EPRS) ha rilasciato un “briefing” sul tema: ‘The EU olive and olive oil sector – Main Features, challenges and prospects’, un’ampia panoramica che ha provato a rispondere a questo quesito, analizzando aspetti che vanno dalla struttura dell’azienda agricola alle tecniche colturali nonché alle problematiche legate alle malattie degli ulivi, dalle differenze economiche al ruolo dell’internazionalizzazione.
Si parte da dati numerici: l’oliva e i prodotti a essa legati sono elementi primari nell’economia agricola dei paesi del sud Europa, con circa 5 milioni di ettari di uliveti, oltre 7 miliardi di euro di valore di produzione ogni anno e protagonisti come Grecia, Spagna (con più della metà della superficie olivetata), Francia, Croazia, Italia, Cipro, Malta, Portogallo e Slovenia.
Un totale di circa 1.509.000 aziende di cui quelle con le dimensioni più importanti si trovano prevalentemente in Spagna e Portogallo; il 74% proviene proprio da qui, mentre il 22% è diviso quasi ugualmente tra Grecia e Italia.
Un altro aspetto molto rilevante del settore olivicolo europeo è l’internazionalizzazione e l’export.
L’UE è leader nel panorama internazionale con una media di 541.000 tonnellate di esportazioni annuali (2/3 del totale) in USA – principale acquirente – Giappone, Cina, Canada, Brasile e Australia, e 121.000 tonnellate di importazioni annue (15% delle importazioni mondiali) da Tunisia, Marocco e Siria.
Non mancano riferimenti alle malattie legate all’ulivo, con approfondimento sulla Xylella fastidiosa e le misure di emergenza adottate a seguito dello scoppio dell’epidemia nell’Italia meridionale. Un problema che riguarda anche la Francia, la Corsica, la Provenza-Alpi-Costa Azzurra, la Spagna, le Baleari.
A tal proposito è partito un progetto multidisciplinare di ricerca finanziato dal programma quadro comunitario per la ricerca e l’innovazione Horizon 2020, per un costo complessivo di 7 milioni di euro, che mira a migliorare prevenzione, rilevazione precoce e controllo della Xylella fastidiosa.
Detto questo, secondo le ultime proiezioni a medio termine della Commissione, le previsioni economiche del settore fino al 2026 indicano una maggiore produzione in Spagna (dove la Commissione prevede una notevole crescita degli uliveti irrigati nei prossimi anni) di circa il 10% e una lieve flessione in Grecia (+2%) e in Italia (-1%). In questi paesi le tendenze dei consumi dovrebbero avere una certa stabilizzazione o diminuzione minore, in gran parte compensata dall’aumento del consumo nei paesi non produttori all’interno e all’esterno dell’UE.
Per quanto riguarda il commercio internazionale, le prospettive per il 2026 costituiscono un considerevole rafforzamento del ruolo guida dell’UE nelle esportazioni (+45% nel periodo) e un possibile aumento delle importazioni dai paesi mediterranei dell’UE.
Come (sempre se) si trasformerà il sistema produttivo olivicolo?
Si parla di sistemi produttivi più efficienti e moderni con conseguente aumento della dimensione dell’azienda e l’introduzione della meccanizzazione nei processi produttivi in aggiunta a colture intensive. Un’ipotesi, quest’ultima, che non ha ancora trovato pieno consenso, a fronte anche di una recente ricerca spagnola che ne ha evidenziato i limiti, derivanti da: caratteristiche delle aree produttive (ad esempio un ambiente fragile o una pendenza significativa), metodi di produzione (ad esempio la raccolta tradizionale è preferita per evitare di danneggiare le olive), o dagli alberi stessi (ad esempio, una coltura permanente perenne causa rigidità nell’adattamento a nuovi schemi produttivi).
Meglio puntare, quindi, su soluzioni innovative di raccolta, nuove cultivar o una migliore gestione dei parassiti, per coltivare uliveti più redditizi e meno esposti a volatilità di mercato – anche in unità produttive più piccole.
Il mercato dell’olio di oliva può oscillare per diversi motivi, come l’alternanza ciclica di raccolti buoni e poveri o il tempo prima che le nuove piante diventino pienamente produttive.
A tal proposito l’Italia sarebbe l’esempio più eclatante: le piccole dimensioni delle sue aziende la dovrebbero naturalmente portare a puntare non su colture superintensive (che in Spagna comunque non superano il 3% del totale), ma su una crescente valorizzazione del suo patrimonio varietale che comprende circa 1/3 delle cultivar di olive presenti in tutto il mondo.
In conclusione questi numeri, non solo fanno capire il peso della Spagna nel condizionamento economico e strutturale del settore, ma dovrebbero anche far pensare alle enormi differenze produttive, varietali ed economiche che insistono tra i singoli stati membri. Diventa quindi alquanto surreale pensare a soluzioni univoche e unilaterali per questo settore.