La notizia è che molti marchi dell’industria e dell’imbottigliamento italiani stanno investendo in oliveti.
Generalmente si tratta di impianti superintensivi, decine di ettari, intorno ai 150 o più, che comprendono una piccola quota sperimentale di varietà italiane e la maggior parte delle cultivar internazionali: Arbequina, Arbosana, Koroneiki.
Acquisiti per pochi spiccioli, spesso i terreni scelti si presentano in pessime condizioni agronomiche, addirittura i nuovi impianti in molti casi risultano essere stati già piantumati un paio di volte.
Terreni dalla produttività assolutamente limitata. A che pro?
È evidente che questi oliveti hanno solo una funzione promozional-commerciale.
Vi sono poi le partnership strategiche, che tengono divisi bene i ruoli (chi produce, chi imbottiglia e commercializza), ripartendo in maniera più equilibrata rischi imprenditoriali e profitti.
Un esempio è il recente caso di Deoleo che in Spagna ha siglato un’intesa con l’organizzazione olivicola Upa, che conta 80 mila agricoltori associati delle province di Jaen, Extremadura e Castiglia. L’accordo prevede acquisti programmati di olio a fronte di un impegno su qualità e tracciabilità.
Non accordi ma acquisizioni invece per Sovena che ormai, direttamente e indirettamente, controlla tre frantoi andalusi e 1500 ettari olivetati.
Rispetto al recente passato c’è quindi un forte dinamismo dell’industria olearia, italiana e spagnola, in campo agricolo e produttivo.
Ma si tratta di tattica, volta a evitare il ripetersi di scandali che l’ha fortemente danneggiata negli ultimi anni, oppure strategia, ovvero un cambio nella considerazione dell’olio di oliva, non più commodity ma prodotto che merita di essere valorizzato?